sábado, 7 de julho de 2012

Outros Zatelli no Mundo - ZATELLI, Luigi (Gino)

Testimonianze e racconti (La vostra storia raccontata da voi – N. 19.20 Aprile 2001 Ginò, vous êtes un Lion Luigi (Gino) Zatelli “IL MIO PRIMO IMPATTO CON LE MINIERE L'HO AVUTO A DICIOTTO ANNI, nelle gallerie scavate dai canopi sul Calisio. Era il 1943 e c’ero andato per nascondermi, non per lavorare.” Avevo terminato le scuole a quattordici anni: non mi sarebbe spiaciuto andare avanti con gli studi, ma ci volevano soldi, e soldi ce n’erano troppo pochi. Così feci il “bocia” per un po’, vari lavori, quello che si trovava e poi, a sedici anni, mi arruolai volontario in Marina. Mi fecero fare un corso all’Arsenale di Venezia, poi uno alla base di La Spezia e infine fui imbarcato sulla corazzata Roma come segnalatore. Facevamo la spola tra l’Italia e l’Africa scortati dai cacciatorpedinieri; trasportavamo truppe e materiale nella zona di Tobruk. L’8 settembre del 1943 l’Italia firmò l’armistizio con gli Alleati e la Roma salpò verso Malta per consegnarsi agli inglesi. Al largo della Sardegna venimmo affondati dai bombardieri tedeschi e mi ritrovai in mare tra i relitti, i morti e i naufraghi. Poi arrivarono i caccia a mitragliare i superstiti e fu un vero massacro. Di tutti i marinai ci salvammo solo in cinque, che ricordi io. Già allora avevo una buona stella che brillava su di me e questa stella, per fortuna, non mi ha mai abbandonato. In qualche modo, riuscii a tornare qui in Trentino. C’erano i tedeschi e la scelta era tra finire in campo di concentramento in Germania o venire arruolato nella Flak, la contraerea della Wermacht. Scelsi la Flak, per restare qui in zona, ma dopo un mese scappai: di guerra ne avevo avuta già abbastanza per i miei gusti. Rimasi nascosto per due anni nelle gallerie dei canopi, sul Calisio. Armavo un cunicolo con delle travi di legno, ci mettevo un letto di aghi di pino e quella, per un po’, diventava la mia casa. Ho fatto proprio una vita da tasso, quei due anni! Ma mi abituai a vivere nelle gallerie, ci presi confidenza. E questo mi tornò utile quando, nel 1946, andai in Cecoslovacchia e iniziai quello che sarebbe stato il mestiere di tutta la mia vita: il minatore. Ho lavorato per tre anni, fino al ’48, nelle miniere di carbone di Svoboda, vicino al confine con la Polonia. Evidentemente, il lavoro di minatore ce l’avevo nel sangue perché diventai presto un esperto. I minatori erano cecoslovacchi, tedeschi, polacchi, russi. Io lavoravo sodo e imparavo i trucchi del mestiere da quelli più bravi, dai veterani. La silicosi, per esempio. Giù nelle gallerie la polvere di carbone è dappertutto. Polvere sottile, che ti annerisce la pelle, ti riempie il naso, la bocca, i bronchi, ti riduce i polmoni a niente. Quanti compagni, quanti amici ho visto morire di silicosi! Anche giovani, e anche dopo pochi anni di miniera. Gente che moriva o restava rovinata per sempre, con il 40-50% di silicosi. Oggi, dopo più di trent’anni di miniera, io ho solo il 12% di silicosi. È quasi un miracolo. Ma avevo imparato dai vecchi minatori cecoslovacchi come difendermi dalla polvere. Quando scendevi in miniera, ti davano la maschera e gli occhiali. Ma con la maschera respiravi a fatica, era un inferno e quasi tutti se la toglievano subito. E anche se la tenevi su, ti proteggeva dalla polvere più grossa, ma quella fine passava lo stesso, e siccome con la maschera eri costretto a respirare con più forza, ti finiva dritta giù fin in fondo ai polmoni. Invece i minatori cecoslovacchi masticavano tabacco per tutto il tempo che stavano giù in galleria. Se continui a ciccare, sei costretto a respirare col naso, che già fa da filtro, e soprattutto, il tabacco umido trattiene le particelle di carbone, un po’ come quando si bagnano le strade sterrate per non sollevare la polvere. Avevano delle tavolette di tabacco pressato, inumidito con dell’acquavite. Le prime volte che ho provato a masticarlo, ho vomitato anche l’anima. Poi ho imparato e fin che ho lavorato in miniera non ho più smesso. Questo mi ha salvato dalla silicosi. Dagli altri pericoli, e ce n’erano tanti, mi ha salvato l’esperienza e qualche volta la mia buona stella, quello che io chiamo “il mio Dio a parte”. In miniera gli incidenti erano all’ordine del giorno: crolli, esplosioni di grisou… Si moriva facilmente, e io lo so bene, visto che ho fatto parte delle squadre di soccorso e ne ho tirati fuori tanti di feriti e di morti. Dai pozzi di discesa si scavavano gallerie di avanzamento lunghe anche 500 o 1.000 metri. Sopra rimaneva la vena di carbone, che lì a Svoboda poteva avere uno spessore anche di 40-50 metri. Ogni tanto, a fianco della galleria si scavava una camera di sicurezza di quattro metri per quattro, armata in ferro. La galleria principale era armata in legno. E in legno erano armati anche i “cameroni della morte”, che passavano sotto tutta la larghezza della vena ed erano larghi anche 200 metri. Finito di scavare, si ritirava l’armatura e il carbone crollava giù. Se non veniva giù da solo, lo si faceva saltare con le mine. Poi lo si caricava nei carrelli, una trentina di tonnellate al giorno. I “cameroni della morte” si chiamavano così perché, larghi com’erano, era facile che mentre stavi caricando il carbone la volta cedesse e venisse giù tutta la roccia soprastante. Ci vuole davvero del fegato per lavorare nei cameroni. Prima di entrarci ci si guardava negli occhi e in tutti si leggeva la domanda: Andrà bene anche stavolta? Ce la facciamo? Poi, quando si è dentro, la mente dimentica la paura e si concentra sulla sicurezza. Io avevo un sesto senso per quanto riguarda i crolli. Lavoravo al carico con un occhio alla pala e uno alla volta del camerone. Appena vedevo che cominciavano a formarsi delle crepe gridavo a tutti di mettersi in salvo. Si filava via come i razzi e dietro di noi veniva giù tutto. Sembrava una bomba atomica! I compagni mi dicevano: Tu sei matto a pensare di prevedere i crolli. Però era così, e quando gridavo correvano, e come correvano! E si salvavano. Don Umberto, il parroco, quando ogni tanto gli racconto queste cose, mi dice: “Tu, Gino, vai in Paradiso di sicuro, perché l’inferno l’hai già scontato qui sulla terra”. Nel ’48, in Cecoslovacchia, è andato al potere il Partito Comunista e le cose sono cambiate. Io non mi interessavo di politica, ma il nuovo regime non mi piaceva per niente. Bisognava dire sempre di sì a tutto, anche a quello che non andava bene: “Dobra, dobra robiak”, (Tutto bene, il lavoro va bene), anche quando non era vero. Non faceva per me. Allora ho finto di essere ammalato: dicevo che in galleria mi mancava il respiro, mi girava la testa... così ho potuto avere un permesso di riposo in Italia, e in Cecoslovacchia non ci sono più tornato. Ma qui mi sono fermato poco. In qualche modo, ormai il Trentino mi andava stretto. Bello, bellissimo, ma io volevo girare, vedere il mondo. E poi, soprattutto, lavoro qui non ce n’era. Così nel 1950 sono emigrato in Belgio. A quel tempo il governo italiano aveva un contratto con quello belga: l’Italia mandava in Belgio i minatori e il Belgio mandava in Italia il carbone. Il carbone belga è stato fondamentale per la ricostruzione del dopoguerra, per quello che è chiamato il “boom” economico italiano. E quel carbone non solo l’abbiamo tirato fuori noi emigrati, ma è arrivato qui perché siamo partiti noi. Partivamo in tanti: c’erano dei periodi che arrivavano a Charleroi anche tre convogli di minatori al giorno. Li chiamavano minatori, ma tanti di loro non avevano neanche mai visto una miniera. Erano lì solo perché a casa lavoro non ce n’era. Quando si rendevano conto di cosa era veramente la miniera, si facevano prendere dal terrore e rifiutavano di entrare nei gabbioni degli ascensori che scendevano nei pozzi. Allora li sistemavano in una specie di campo di concentramento e poi li rispedivano in Italia. Ho iniziato a lavorare nella miniera Fontaine, pozzo 17, a Pieton, vicino a Charleroi. Poi sono stato trasferito a Anderlues. In Belgio le vene di carbone sono più basse di quelle di Svoboda, arrivano al massimo a un paio di metri di altezza, ma generalmente non sono più alte di mezzo metro. Allora bisognava lavorare sdraiati. Si andava avanti distesi sulla pancia o sulla schiena, scavando la vena col martello pneumatico per qualche decina di centimetri; poi si armava il tratto di galleria appena scavato e poi avanti ancora. All’inizio è stata dura. I minatori belgi ci guardavano con ostilità, pensavano che noi italiani fossimo venuti a portargli via il lavoro. Poi le cose sono cambiate, perché chi si comporta bene e sa lavorare bene è rispettato dappertutto. Io non ho avuto grandi problemi, ho imparato il francese abbastanza velocemente, ho fatto amicizia con la gente del posto, mi sono trovato delle morose... La vita però era dura: giù nei pozzi dalle cinque di mattina fino alle due e mezza del pomeriggio. Nove ore filate a mille e più metri di profondità. Appena arrivati ci sistemarono in un vecchio campo di concentramento con le baracche di lamiera. Eravamo in trenta per baracca, dormivamo sui tavoloni di legno, con della paglia come materasso. Vivevamo come schiavi e di soldi non se ne vedevano perché se li prendevano tutti i proprietari delle mense, le cantines, dove andavamo a mangiare. È andata avanti così fino al 1955, poi sono stati istituiti i delegati, le cose sono cambiate, i minatori hanno cominciato a essere trattati un po’ meglio. Ma giù nelle gallerie non è cambiato molto: nove ore al giorno di lavoro duro e pericoloso. Quando entravi nel gabbione per scendere nel pozzo non eri mica sicuro che ce l’avresti fatta a risalire. A Marcinelle, l’8 agosto del 1956, morirono nella miniera 262 minatori e più della metà erano italiani. Ma gli incidenti, anche mortali, erano quotidiani. Certe volte con 40-50 morti al colpo. Stavi lavorando sdraiato sulla pancia, in un budello alto mezzo metro, un chilometro sotto terra, ed ecco l’urlo: “La montagne s’écroule!” (Vien giù la montagna!), oppure “Grisou! Il va exploser!” (Grisou! Sta per scoppiare!). C’erano le armature che cedevano, c’erano i crolli delle volte, c’era il grisou che esplodeva... e c’era, sempre, la silicosi. Io ho rischiato la vita mille volte, ma grazie a Dio me la sono sempre cavata. Incidenti ne ho avuti tanti, ossa rotte, ferite... ma sono ancora qua. Quando ti ferisci in miniera, la polvere di carbone entra nel taglio e quando la ferita guarisce ti resta come una specie di tatuaggio nero–bluastro: io ne ho dappertutto. Nel mio lavoro ero bravo, sapevo come muovermi là sotto, avevo imparato a conoscere la roccia e i suoi pericoli. Insomma ero un minatore provetto e per questo venivo spesso chiamato a partecipare alle operazioni di salvataggio e recupero. Mi mandavano dove erano successi incidenti o c’era gente bloccata sottoterra: io li tiravo fuori. Mi dicevano: “Ginò, vous êtes un lion!” (Gino, sei un leone!). Qualche volta lavoravo da solo, altre volte con le squadre di specialisti, tedeschi in genere. Per il mio lavoro ho ricevuto la medaglia d’oro al valore, che mi è stata appuntata direttamente da re Baldovino del Belgio. Ho lavorato fino al 1983, poi sono andato in pensione e sono tornato qui a Barbaniga di Civezzano. Ho settantasei anni, ma mi sento ancora pieno di forza. Ho avuto una vita interessante, ho girato l’Europa, ho vissuto in molti posti, ho fatto un lavoro micidiale ma che è arrivato ad appassionarmi. Ogni tanto torno a visitare i posti dove ho trascorso la mia gioventù e passo a trovare i miei amici. Ne ho ancora molti là in Belgio. È bello riabbracciarli e parlare dei vecchi tempi e sentirsi dire ancora, come una volta: “Ginò, vous êtes un lion!” Pieton, primi anni '60: i minatori si vestono per scendere nella miniera. Gino Zatelli è il primo da destra. Io e il re Nel 1971 venni insignito della Medaglia d’oro al valore civile per il mio lavoro e la mia attività di recupero e salvataggio nelle miniere della Vallonia. Per consegnarla, venne a Anderlues il re Baldovino in persona, accompagnato dalla regina Fabiola. Eravamo in tre a ricevere l’onorificenza, sistemati su un podio a scalini, come quelli olimpici. Sugli scalini laterali c’erano due belgi, che ricevettero la medaglia d’argento e di bronzo; sullo scalino centrale c’ero io, emozionatissimo. Non riuscirò mai a dimenticare quel giorno. Re Baldovino era un sovrano amatissimo sia dai belgi che da noi lavoratori stranieri. E questo amore se lo meritava davvero, perché era un uomo affabile, franco, alla mano e sinceramente preoccupato del benessere dei suoi sudditi e dei lavoratori. Mentre stava per appuntarmi la medaglia, mi disse sorridendo: “Ginò, maintenant je vais te piquer!” (Gino, ora ti pungo!). Mi sono sentito tirare per la giacca, ed era la regina Fabiola, che stava accanto al podio. Re Baldovino, che Dio lo benedica, mi appuntò la medaglia e mi diede la mano. Questa medaglia, incorniciata e appesa al muro di casa mia, è il mio orgoglio e uno dei miei ricordi più belli. In: http://www.riviste.provincia.tn.it/ppw/tnemigra.nsf/a198e46a2cfc269bc12565df0032208c/009a547cb8242c30c1256a530036cd04?OpenDocument - 30/10/2011 – 15:00Hrs.

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